Gli articoli si guardano, le fotografie si leggono (Arrigo Benedetti)







domenica 4 marzo 2012

Londra-Singapore a/r. Il mistero nel fruscìo di un Sari



Il taxi mi lasciò davanti casa Chadanarabay che non era ancora l’alba. Ancora qualche attimo di buio e sarebbe cominciato il giorno della festa grande.
La sera prima Timlha aveva spiegato all’autista la strada da fare, perché ad Ang Mo Kiò, i viali sembrano un po’ tutti uguali: alberi e ville a schiera, alberi e ville a schiera, in moduli ripetuti all’infinito, sul modello delle new town inglesi.
Questa volta non c’era nessuno ad aspettarmi lì al cancello. Lo credo bene, a quell’ora.
Dovevo essere lì -a quell’ora- perché Rakhi avrebbe dovuto vestirmi, ovvero rigirarmi intorno il Sari. Operazione non semplice se non conosci i trucchi. Rakhi era solita farlo per sé e per chi glielo chiedesse, con la disinvoltura indolente, elegante, che solo le donne indiane posseggono.
Era buio. All’Equatore l’alba dura un’attimo, velocissima: dal buio di mezzanotte al sole sfolgorante in pochi minuti, senza mezzitoni.
C’è solo un attimo di luce rosa che infiamma i palmizi come in un rogo improvviso, se lo becchi mandi al diavolo il più struggente raggio verde di Rohmer, sul grigio oceano del mare di Normandia. Verde, grigio, freddo e depressioni esistenziali. Robetta al confronto col caldo di velluto all’Equatore:  ti accarezza la pelle morbido, di prima mattina come a notte fonda.
Dalla strada sentivo chiare le percussioni di un tamburo, un ritmo secco, antico. Nel cortile c’erano foglie di banano intrecciate in ghirigori dappertutto, come una grande pergola. –Che festa è?- mi fa il tassista. Un matrimonio, gli dico, il matrimonio di Ervjia e Mario.
Ma cosa stavo lì a raccontare nottetempo, in una strada di un luogo del mondo chiamato ANG-MO-KIO (cosacavolo significherà poi ang-mo-kiò). Confidare in scioltezza ad un tassista cinese, cose private di famiglia, con nomi e cognomi. Congratulations! Sorride il cinese. Faccia aperta, contenta, di uno che sa bene cosa stia per succedere, una sorta di vedrai-ti-piacerà.  Stupide le mie elucubrazioni sul “concetto di privatezza” nel fronte occidentale del globo. Lui sapeva già tutto, ignara io, intenta a mascherare privatezze occidentali. Avrà notato che sono emozionata? Lo sono.
Avevo indosso pantaloni beige aderenti. Sopra, una camicia azzurra, di taglio maschile, anche se avvitata e chiusa da un solo bottone. Sarei uscita da quella casa completamente trasformata, avvolta in sete dorate e adornata di gioielli esagerati, volevo entrarci il più lievemente possibile, senza orpelli, pronta ad accogliere il cambiamento.
Le luci del giardino erano spente, era accesa solo la lampada in soggiorno, ed anche la sala da pranzo e la cucinona sonnecchiavano in penombra. La musica ora era più netta, forte e profonda, le percussioni ribattevano al cuore. (Che strani ‘sti indiani, dormono e mettono musica a volume venti).
Lasciai i sandali fuori, al solito posto, ed entrai intenzionata a dirigermi in cucina per prepararmi un caffellatte degno di questo nome. No problem per l’americano a colazione ma erano giorni, una ventina ormai, che mi mancava il sapore giusto.Dopo, tutto mi sarebbe stato certamente più chiaro.

Era lì, al centro della stanza, a piedi nudi su quell’enorme tappeto.
Un’asciugamano bianco avvolto a mo’ di pareo intorno alla vita e nient’altro addosso. Gli occhi chiusi, ballava a scatti e a onde, quasi precedendo la musica, un pezzo di classica tamill. Ora simulava un volo, ora uno scimpanzè impazzito. Misurava la stanza con passi danzati, sicuri, la testa morbidamente roteante, gli occhi sempre chiusi, le braccia tamburellavano il corpo. Non si era accorto della mia presenza. Danzava.
Dovevo decidere cosa fare di me. E al più presto. Decidere se “portarmi” immediatamente fuori da dove ero arrivata, o se invece procedere verso la cucina, dove stavo andando. Dovevo “togliermi” di lì, ancora un po’ e mi avrebbe vista, e sarebbe finito l’incantesimo.
E invece ero già un totem, bloccata-immobile: terra inghiottimi, aria attraversami. Inchiodata lì a turbare l’equilibrio di forze invisibili, che in forma di musica e danza, circolavano libere in quella stanza. Non so dire quando mi fu chiaro che nulla lo avrebbe distolto.
La sua danza pacata era gioiosa, esprimeva uno spazio mentale eccezionale per la sua particolarità, ma anche abitudinario, per la naturalezza con cui si susseguivano i movimenti, per il modo in cui quei movimenti dialogavano con la musica.
Lui era tarchiato ma agile, pelle ambrata e liscia, muscolatura tonica, allenata, capelli bianchi: lo zio malese di 82 anni, docente di Storia Indiana all’Università di Malakka. Tutte informazioni che ebbi il giorno dopo. Era arrivato la sera prima, insieme al gruppo dei parenti malesi. Li avevo salutati tutti insieme, ma non me n’era rimasto uno a mente. Mi erano sembrati anche troppo uguali fra loro. Cieca.

Era chiaro dunque che la scena in cui ero capitata per caso, si sarebbe svolta a prescindere dalla mia incursione. Mio malgrado facevo parte della composizione. Avrei potuto entrarne ed uscirne quando e come volevo. Io e la mia tazza di caffellatte, in fermo immagine lì, dai sorseggi mattutini londinesi, scrutando correnti del Tamigi, a inaspettate colazioni d'albeggio sotto palmizi tropicali, in un’isola dell’oceano indiano, dentro vibrazioni di musiche sconosciute.
Il resto della casa dormiva, lo stregone malese volteggiava tra slanci e flessioni; mi ero scelta un posto a terra, accanto alla portafinestra, dalla quale ormai entrava un giallo abbagliante. Quel caffellatte era lì, pronto ad attraversare le mie vene con la forza dei tamburi tamill. Nessun Bertolucci d’occasione avrebbe potuto ricreare un’atmosfera uguale. Non può saperne Bertolucci, di latte con stregone malese danzante sotto il sole del Tropico.
Ero all’ultimo sorso quando Rakhi venne a chiamarmi: il mio Sari era pronto.
Entrammo nello spogliatoio dove altre donne si adoperavano alla stessa impresa. Rakhi aveva gesti precisi, come se conoscesse il mio corpo da sempre. Quattro pieghe davanti per il drappeggio, due giri intorno e lo strascico sulla spalla sinistra. Ero pronta per passare a Sushmita per le rifiniture. Una collana fasciante carica di pendagli e campanelli in bronzo tenuti insieme da un laccio color malva, in tono col viola e oro del Sari. “You need flowers” annuncia Sushmita, e mi fissa una cascata di mughetti bianchi alzandomi i capelli sull’orecchio destro. Fatto: sete avvolte intorno, lo strascico appoggiato al braccio. Rakhi mi spiega come piegarlo, il braccio, come fosse un cenno di inchino. Sete avvolte intorno e null’altro.

Rientrai in sala. Lo zio malese era seduto in poltrona, aveva in mano il libro delle preghiere, la musica continuava, ora di sottofondo. Alzò lo sguardo al fruscìo del sari, come per rispondere ad un richiamo atavico. Poggiò il libro sulle gambe e mi fissò pensoso. Gli sorrisi: ora me ne dice di belle per avergli mandato a monte concentrazione e ballo mattutino, io e il Singapore milk&coffee dell'alba equatoriale.

-Good morning little queen. Thank you for tonight. I am Tamish, nice to meet you-.



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