Gli articoli si guardano, le fotografie si leggono (Arrigo Benedetti)







giovedì 1 marzo 2012

Patricia Urquiola intervista Marina Abramovic. Quel che si dice "un incontro casuale"


“Crossover - creativity meets creativity”. Protagonista il tavolo.
Sfogliavo cose per cercarne altre e ritrovo foto di Marina Abramovic scattate a "Crossover -creativity meets creativity" alla Galleria Illy lo scorso settembre.
Marina incontrava Patricia Urquiola, ancora non so dire se mi trovavo lì più per l’una o per l’altra, (credo più per l’una). Il Crossover si svolgeva intorno a un tavolo speciale fatto apposta per “moltiplicare” gli incontri fra le persone che vi ci capitano intorno. Una sorta di “tavolo terapeutico” di gruppo che specchia tutti insieme per esaltare le differenze, in prospettive diverse, deformate, inaspettate, a volte poco gentili da riprodurre nella realtà.
 Il Tavolo Mediterraneo è un grande tavolo-specchio a forma di bacino del Mediterraneo, circondato da sedie provenienti dai diversi paesi che vi si affacciano. Michelangelo Pistoletto lo aveva progettato per “Love difference, Movimento Artistico per una Politica Intermediterranea”, nato nel 2002 dalla collaborazione tra l’artista e Cittadellarte. La Galleria Illy ha adottato a proprio simbolo tavolo e motto, per rappresentare l’obiettivo fondante della sua missione: fare cultura col ”pretesto” di un caffè, riunire artisti e “miscelarli” per generare scambio produttivo, creativo.
Quella sera di settembre, al primo incontro in programma, al tavolo erano sedute Marina e Patricia (Abramovic e Urquiola). L’una serba (nipote di un santo), l’altra asturiana di Oviedo. L’una senso e corpo, l’altra materia e ingegno. L’una esprime l’arte attraverso il dolore e il superamento delle paure, esplorando le limitazioni fisiche e mentali del corpo. L’altra disegna in funzione del benessere, della “bellezza”. La prima interagisce direttamente col pubblico in eventi definiti nel tempo. L’altra progetta “per” il pubblico; incontra il pubblico “in differita” nel momento in cui l’oggetto disegnato viene usato, “esperito”. L’una rifugge la tecnologia. L’altra non può farne a meno. L’una forte, espressiva, profonda. L’altra solare, leggera, compiacente.
The o caffè? (In Serbia the e in Spagna caffè, of course). Quando hai cominciato a sentirti artista? E tu quando architetto? Quale il tuo rapporto col pubblico? Quale il senso del tempo per te? E il senso del colore? Come vivi la tecnologia? Un botta e risposta mai decollato in un vero raccontarsi, se non in alcune “aperture” di autonoma iniziativa della Abramovic, desolatamente cadute nel vuoto.
L’arte coincide con lo stato mentale del momento stesso in cui viene prodotta, confida Marina. L’artista è tale perché fa dell’arte la sua vita, non un semplice progetto concluso. Per creare, Marina dice che l’artista ha bisogno di esperire le difficoltà, il dolore, le rinunce. Ha bisogno di un contatto diretto con il pubblico, con cui lei dice di stipulare un contratto: “dedicami uno spazio temporale definito, dammi 15 min, e io entro nella performance per te”. Senza l’interazione con lo spettatore per Marina non c’è arte. Da intervistata Marina diventa la vera conduttrice del dibattito. Lei il pungolo sottile nell’anima, che spiazzava (chi fosse pronto allo sbandamento), senza però raccogliere un vero coinvolgimento: la platea era lenta, semidormiente, compiaciuta solo di esserci, all’italiana di un certo tipo, insomma. Marina parlava di effetto del colore perché lo ha “vissuto addosso” con abiti monocromatici dal giallo al blu, al grigio, al rosso, così vestita, con un colore al mese per un anno. Parlava di tempo “non lineare” dove il presente è senza tempo, e il tempo esiste solo al passato e al futuro. Parlava di deserto, di mare, cascate e vento da vivere direttamente, per dirci che non usa la tecnologia e i computer perché odia la fruizione passiva del mondo che ne deriva. Parlava di corpo pubblico, corpo privato e corpo didattico. Si è spinta a discettare di architettura, offrendo campo alla partner di scena, attraverso tre elementi per lei fondamentali nella percezione dello spirito: le carceri, i sanatori e i monasteri. Le carceri per costrizione coatta della libertà dovuta al crimine; i sanatori per costrizione dovuta alla malattia e i monasteri per costrizione –in questo caso volontaria- dovuta alla sovrastruttura della fede. Ogni parola un macigno. La partner di scena non coglieva.
La conversazione condotta a braccio tra Marina e Patricia sollevava tanti, troppi “sintomi del giorno dopo” che resistono ancora, mesi dopo.
E’ davvero possibile –e fino a che punto- confrontare design e (performance) art? Se è vero che l’arte può diventare design, e il Tavolo di Pistoletto ne è la sintesi più evidente (come la stessa Marina sottolinea), non è sempre vero, sicuramente più raro, che il design assurga ad arte, quella profonda, fatta di sensi, emozioni, sentimenti; l’arte cioè, che mette in gioco la vita stessa di chi la rappresenta. C'è stato un vero scambio tra arte e design nell’incontro (casuale) tra Marina e Patricia quella sera? A Patricia l'onere delle conclusioni nel dover riconoscere nelle parole di Marina una spinta alla levitazione, rispetto alla quale ogni parola è superflua (si era capito).
Riuscita dunque la miscela “Urquiola/Abramovic Illy limited edition”? La risposta impronunciabile è, a marzo come a settembre, ancora “no”.
Le motivazioni tutte da indagare, in una partita fra poli opposti in cui la palla è sembrata cadere spesso fuori campo, fuori dal mare specchiato di Pistoletto, spettatore muto, strenuo difensore dell’Arte.

“Give me 15 mints more…”.







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