È la storia di
una sedia. Una sedia,
quella giusta sa qual è il compito che spetta a un “luogo per pensare”. Laddove
non si tratta di pensare e basta -quella è un’altra storia- ma di concentrarsi
a lavorare, focalizzare le idee, metterle a punto e arrivare a sera contenti di
un percorso.
C’è un rituale
da svolgere, chi lo pratica sa di cosa parlo e ognuno ha il suo. È tutto un
cerimoniare che precede il mettersi all’opera, che sia per giorni interi o per un’ora.
Organizzi il tavolo, ti circondi delle cose “giuste”, dei libri per le pause, del barattolo coi
biscotti, delle immagini a cui tieni. Ingombrerà forse 3mq scarsi di spazio il
cerimoniale, quanto ne prende il binomio magico di sedia/scrivania; non la
stanza, o quello che chiamiamo “studio”; non dove mettiamo le piante; non il
balcone, o i quadri, ma lo spazio che ci si stringe intorno nel momento delle
idee, in cui non vogliamo entri più nessuno. Esattamente quei metri cubi lì.
È un gioco di
altezze e rapporti, di sensibilità alla spinta, alla rotazione, alle posizioni.
Ci fai stretching o ci raggiungi –in sella- la libreria accanto, la sedia diventa estensione
“fisica”. Al tavolo (non mi va di chiamarlo scrivania) il compito di “parare i
colpi” rendersi disponibile ad ogni eventualità. È un gioco di proporzioni e “scala
metrica”: lei, la sedia, si adegua al mood del giorno e così anche la
prospettiva sul tavolo -e sulle cose- si modifica di conseguenza.
La mia sedia
lo sa, sa che è lei il luogo dei pensieri quando arrivano a compimento, e per
questo ha deciso sempre tutto lei, a cominciare dalle altezze. Ci siamo
conosciute al primo anno di università e lei era alta, doveva abbinarsi al tavolo
da disegno e al tecnigrafo (strumenti cari di storia patria). Non aveva ancora
le rotelle ma andai dal fabbro a fargliele montare immediatamente: cinque
rotelle, una per ogni braccio del piede a stella. Divenne immediatamente “più”
alta! E il tavolo una piazza. Per le acrobazie delle lucidature finali (1) a
volte serviva puntarci sopra un ginocchio –sulla sedia- e puntellare l’altro sul bordo del tavolo, per raggiungere
in perfetta posizione zenitale l’angolo più a nord-est del disegno.
Anyway, io e
lei mai più divise. I tavoli cambiavano ma lei continuava a dettar altezze:
anche al minimo della rotazione si rivelava sempre troppo alta per qualsiasi (povero)
tavolo standard. Io e lei sempre insieme, in ogni casa in cui abbia traslocato. Il
tavolo di turno poteva anche cambiare e puntualmente modificarsi con artifici
più o meno “architettonici” ad una altezza di almeno 90/95 cm a fronte dei
70/74 dello standard. Lei no: flessibile, adattabile, ma alta sempre.
Eccola a
Londra, prima fra i primi a salire sul container al momento del trasloco, sorda
ai gentili inviti a lasciar perdere, a comprarne un’altra, magari inglese (oh!).
Acciaio cromato e puntinato di vaga ruggine, tappezzeria mai cambiata, velluto
grigio consunto ma terribilmente elegante, con gli schizzi di acrilico bianco
di quando dipingevo.
Ti ci siedi con
un saltino, o sali prima sulla barra poggiapiedi, ed è come andare in
postazione, alla consolle di un’astronave.
nota:
(1) All’epoca i
disegni si “lucidavano”, ovvero si “passavano a china”, ovvero ti facevi un
c..(lo) così per non macchiare, non colare, e andar leggeri col pennino
Staedtler 0.13 a ricalcare i tracciati a matita dalla "mozzarella" alla carta -lucida- (tessitura massima).
Ma questa non è "una" sedia, questa è "la" sedia che ha formato (in tutti i sensi) almeno 3 generazioni di architetti! personalmente la possiedo nella versione lignea priva di schienale: in confronto il cilicio è uno strumento di relax! però sono d'accordo, a volte sedercisi sopra è un'urgenza fisiologica :)
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