Gli articoli si guardano, le fotografie si leggono (Arrigo Benedetti)







venerdì 28 settembre 2012

Di una sedia






































È la storia di una sedia. Una sedia, quella giusta sa qual è il compito che spetta a un “luogo per pensare”. Laddove non si tratta di pensare e basta -quella è un’altra storia- ma di concentrarsi a lavorare, focalizzare le idee, metterle a punto e arrivare a sera contenti di un percorso.

C’è un rituale da svolgere, chi lo pratica sa di cosa parlo e ognuno ha il suo. È tutto un cerimoniare che precede il mettersi all’opera, che sia per giorni interi o per un’ora. Organizzi il tavolo, ti circondi delle cose “giuste”, dei libri per le pause, del barattolo coi biscotti, delle immagini a cui tieni. Ingombrerà forse 3mq scarsi di spazio il cerimoniale, quanto ne prende il binomio magico di sedia/scrivania; non la stanza, o quello che chiamiamo “studio”; non dove mettiamo le piante; non il balcone, o i quadri, ma lo spazio che ci si stringe intorno nel momento delle idee, in cui non vogliamo entri più nessuno. Esattamente quei metri cubi lì.

È un gioco di altezze e rapporti, di sensibilità alla spinta, alla rotazione, alle posizioni. Ci fai stretching o ci raggiungi –in sella- la libreria accanto, la sedia diventa estensione “fisica”. Al tavolo (non mi va di chiamarlo scrivania) il compito di “parare i colpi” rendersi disponibile ad ogni eventualità. È un gioco di proporzioni e “scala metrica”: lei, la sedia, si adegua al mood del giorno e così anche la prospettiva sul tavolo -e sulle cose- si modifica di conseguenza.

La mia sedia lo sa, sa che è lei il luogo dei pensieri quando arrivano a compimento, e per questo ha deciso sempre tutto lei, a cominciare dalle altezze. Ci siamo conosciute al primo anno di università e lei era alta, doveva abbinarsi al tavolo da disegno e al tecnigrafo (strumenti cari di storia patria). Non aveva ancora le rotelle ma andai dal fabbro a fargliele montare immediatamente: cinque rotelle, una per ogni braccio del piede a stella. Divenne immediatamente “più” alta! E il tavolo una piazza. Per le acrobazie delle lucidature finali (1) a volte serviva puntarci sopra un ginocchio –sulla sedia- e puntellare  l’altro sul bordo del tavolo, per raggiungere in perfetta posizione zenitale l’angolo più a nord-est del disegno.

Anyway, io e lei mai più divise. I tavoli cambiavano ma lei continuava a dettar altezze: anche al minimo della rotazione si rivelava sempre troppo alta per qualsiasi (povero) tavolo standard. Io e lei sempre insieme, in ogni casa in cui abbia traslocato. Il tavolo di turno poteva anche cambiare e puntualmente modificarsi con artifici più o meno “architettonici” ad una altezza di almeno 90/95 cm a fronte dei 70/74 dello standard. Lei no: flessibile, adattabile, ma alta sempre.

Eccola a Londra, prima fra i primi a salire sul container al momento del trasloco, sorda ai gentili inviti a lasciar perdere, a comprarne un’altra, magari inglese (oh!). Acciaio cromato e puntinato di vaga ruggine, tappezzeria mai cambiata, velluto grigio consunto ma terribilmente elegante, con gli schizzi di acrilico bianco di quando dipingevo.

Ti ci siedi con un saltino, o sali prima sulla barra poggiapiedi, ed è come andare in postazione, alla consolle di un’astronave.


nota: 
(1) All’epoca i disegni si “lucidavano”, ovvero si “passavano a china”, ovvero ti facevi un c..(lo) così per non macchiare, non colare, e andar leggeri col pennino Staedtler 0.13 a ricalcare i tracciati a matita dalla "mozzarella" alla carta -lucida- (tessitura massima).