Gli articoli si guardano, le fotografie si leggono (Arrigo Benedetti)







domenica 26 febbraio 2012

After Life design. Saremo tutti delle lampadine.



Problema: come farsi ricordare dopo la morte? Da oggi è possibile suggerire ai posteri il modo in cui desideriamo si conservi memoria della nostra esistenza.


Ci piace un oggetto in particolare? Magari che si accende, o si muove. Forse meglio come un’azione, un movimento? Un clown, un acrobata, un pagliaccio? Ci piace andare in bicicletta? Ed ecco che girano le ruote. Amiamo la risacca delle onde al chiaro di luna? Eccone riprodotto il suono. A muovere le ruote, a far risuonare le onde, alle capriole del pagliaccio acrobata, provvederà la nostra stessa energia “vitale” meglio, un concentrato chimico della stessa, che sopravvive alla nostra morte, quando avremo superato la deadline, la nostra propria data di scadenza.


Afterlife converte il potenziale chimico del corpo che si sviluppa nel processo di ritorno alla materia primordiale, in energia elettrica, alimentata attraverso le cellule microbiologiche trasformate. Insomma energia elettrica generata dalla reazione elettrochomica della nostra stessa materia organica. Quella energia viene immagazzinata e conservata in una normalissima batteria, quelle cilindriche di tutti i giorni, tipo duracell.


Afterlife battery può essere usata in una vasta gamma di prodotti “alla memoria” pensati e costruiti su misura, sulle esigenze/performances che meglio rappresentano noi stessi o le nostre incompiute aspirazioni. Prodotti appositamente conformati su specifiche richieste testamentali, o in base all'idea che i nostri cari vorranno conservare di noi, quando ci saluteremo definitivamente.


Utilizzare la batteria offre sicuri benefici psicologici e sentimentali. Dove esattamente posizionare la batteria è una estrema, personale ed emotiva scelta di chi/come vuole ricordare, di chi/come vuol essere ricordato.


Switch-on e switch-off a piacere da utilizzare quando il caro estinto ci mancherà, quando vorremo invitarlo alle nostre feste, quando vorremo presentargli le nostre nuove conoscenze. L’energia della persona una volta convertita in “raggio di luce” può continuare per l’eternità, ed essere utilizzata per momenti speciali, un compleanno, un anniversario. O semplicemente per aspettare insieme l'alba, come una volta, in una notte che non finisce.


Afterlife è un'invenzione di James Augier e Jimmy Loizeau, presentata al "Critical minds: critical spaces. Intellectuals between discipline and trasgression" alla UCL, University College London.


Afterlife-autoricarica, per guardare giù e sorridere, nel baratro esilarante dell'esistenza.


My friend John Adams



My friend Tom O'Brian










venerdì 24 febbraio 2012

Anselm Kiefer e l’architettura di Albert Speer. Misura delle distanze. Dal passato.











Il mistero delle cattedrali è il mistero delle utopie: religiose o politiche che siano, spingono lontano verso l’impossibile, a prescindere dai principi ispiratori, dal “bene” o dal “male”, che le muovono. La cattedrale moderna che Kiefer esplora nel suo ultimo lavoro è l’aeroporto Tempelhof di Berlino progettato da Albert Speer architetto di regime di Hitler. 


Le vedute prospettiche sono quasi violente per la forza centripeta con cui “tirano dentro” mentre le si guarda. Tempelhof doveva essere la porta d’Europa della Germania capitale del mondo, dunque enorme, nell'idea deforme del dittatore, come nel progetto destinato a tradurre quell'idea in realtà tangibile. Enormi le tele su cui Kiefer ha lavorato, le più grandi superano i venti metri, per questo è come starci dentro. La luce e la materia invadono, è come trovarsi nel mezzo delle macerie del dopoguerra, arrugginite e ossidate dal tempo che è passato da quando quei luoghi furono abbandonati. Nelle sale del Tempelhof si sente l’eco del vuoto, il gocciolare dell’umidità, il freddo, il rumore dei calcinacci sotto le scarpe. 


Kiefer ha espresso la distanza da quel delirio con elementi -estranei- sovrapposti alle tele che danno la misura dell’abbandono e del tempo intercorso. Sui resti di un muro bombardato campeggia una antenna parabolica, arrugginita, impolverata, ma contemporanea. Sulla piazza circolare del Tempelhof è conficcato il braccio di una bilancia sospeso a pesare un masso; in un'altra tela incombe dall'alto su quella piazza, un enorme compasso che la misura. Basta soffermarsi sul "quanto pesa" e "quanto è grande" uno squarcio simile praticato sulla terra, per decidere senza appello che è frutto di pura follia. L’ingombro in pianta è pari ai cinque quartieri del cuore di Berlino messi insieme.

Non c’è nessuna leggerezza nei lavori di Kiefer alla White Cube, nemmeno nelle enormi rose fossili o nei girasoli cadenti dal tetto dalla hall del Tempelhof. Tutto grida al dolore di un massacro che mai più deve essere. È la Germania nazista, se ne sente l’odore. Kiefer la conosce bene, è un tema da cui non riesce a staccarsi: il rapporto con la storia è la sua ossessione, in continua tensione fra paura e speranza, smarrimento e utopia. 


Attraversare gli spazi architettonici di Kiefer significa, come egli stesso dichiara, esperire il passato: un gesto che da solo dà ottimismo per il futuro, dà prova tangibile che il peggio è passato, laddove l'architettura assume significati opposti da quelli per cui era nata. Le rose abnormi ossidate e adagiate al suolo inquietano, ma ricordano che <è dalle rose che nasce il miglior miele>.

L’aeroporto di Tempelhof fu costruito nel 1927, nel 2008 chiuso per farne un parco.

Anselm Kiefer 
'Il Mistero delle Cattedrali' South Galleries and Cube 9x9x9, alla White Cube Bermondsey, fino al 26 Febbraio


© the artist.  Photo: Ben Westoby Courtesy White Cube

© the artist.  Photo: Ben Westoby Courtesy White Cube

© the artist.  Photo: Ben Westoby Courtesy White Cube








lunedì 20 febbraio 2012

London Lighting Strategy




1990. Southwark era l’immediata periferia-industriale-dismessa ad est di Londra. Il fiume era “dietro” la città; non si camminava lungo il Tamigi; non c’era alcun motivo di andare ad Elephant & Castle; nulla incuriosiva a Bermondsey, quartiere dei bricklayers e degli operai della Hartley Jam Factory, Peckham era sinonimo di crimine nero. Molti dei romanzi di Dickens su miserie e sorti della classe operaia, sono ambientati tra le strade di Southwark.

2012. Southwark è il quartiere della Tate Modern di Herzog & De Meuron e del Millennium Bridge di Arup & Foster, di Neo-Bankside di Rogers, di Bankside Redevelopment di Allies&Morrison, del Bourough Market, del More London di Foster & Partners, del Riverside Walkaway, che conduce al Tower Bridge fino alle Shad Thames e al Design Museum di Joseph Conran. È il quartiere della London Bridge Station, uno dei 5 maggiori nodi infrastrutturali della città, dove è ormai pronta The Shard, la London Bridge Tower, grattacielo-piramide di Renzo Piano. È il quartiere di Bermondsey street, una delle strade più minimal-fashion del momento, meta cool del passaparola londinese; giù a Peckham ora, c’è la Biblioteca colorata di Alsop & Stormer, un polo culturale di forte attrazione in cui fermarsi a leggere qualcosa in poltrona anche al ritorno dalla spesa, magari togliendo via le scarpe per riposare meglio.

SOUTHWARK è il quartiere in cui si intrecciano i viadotti ferroviari di ingresso a Londra da sud-est, viadotti che tagliano lo spazio urbano e ne costituiscono una barriera fisica e visiva, oltre che psicologica. Barriera anche sociale, come lo stesso fiume fino a pochi anni fa, è stato ostacolo fisico alla rigenerazione/integrazione delle aree a sud della città. I tunnel-sottopasso qui sono ben frequenti, ingombrano e alcuni raggiungono lunghezze anche superiori ai cento metri.

BANKSIDE è il pezzo che di Southwark appartiene alla London South Central, la Zona 1 della città. Immediatamente a ridosso della London Promenade lungo il Tamigi, è il luogo in cui la sovrapposizione di strade e viadotti è più fitta che altrove. STRADA-CON-VIADOTTO è il binomio costante cui si attaccano a calamita le funzioni più disparate.

I TUNNEL: 97 tunnel, indisturbati e neri come trafori, hanno egregiamente assolto fin qui la funzione di collegare quanto i tagli delle ferrovie nel tempo, andavano separando. Architettonici al punto giusto nelle tessiture di mattoncini a vista, mai, quei tunnel, avrebbero immaginato di dover ospitare “clienti” diversi dai camionisti abituali che trasportavano merci da un capo all’altro, sbuffandogli dentro residui grigio diesel. Il cambiamento ha portato gente nuova, non più solo workers ma anche nuovi residents e visitors, nella maggior parte rigorosamente pedestrians. Okay, chiamiamola pure gentrificazione, sta di fatto che tutti, turisti e non, hanno risposto al richiamo della trasformazione, curiosi di scoprirne le novità, conoscere i nuovi spazi dell’ozio, la ‘grana larga’ del nuovo quartiere, le ampie viste sul fiume. Nei tunnel neri, insieme a macchine e camion ha cominciato a transitare anche gente a piedi.

LA TATE MODERN detta il nuovo codice urbano-culturale dell’area (e di Londra): l’arte diventa forma di comunicazione diffusa per veicolare nuovi valori di vivibilità ambientale. Il quartiere diventa meta di creativi e si attrezza per accoglierli al meglio: molte le gallerie d’arte, i laboratori di design (tra la Oxo Tower e Crucifix Lane), le residenze di artisti (Delfina e Jam Factory, la vecchia Hartley).

E I TUNNEL lì, ad inghiottire il cambiamento, nel grigio diesel dei mattoncini orditi a faccia vista, nel rumore ‘grow-up’ dei motori che li attraversano. La vita fuori è frizzante, la vita notturna sempre più frequentata, i tunnel separano col buio lo spazio che fuori, di notte, si accende. Nel 2002 la Cross River Partnership -CRP- decide che è il momento di ‘accendere’ UNA LUCE (ALLA FINE) DEL TUNNEL e avvia il progetto denominato Light at the End of Tunnel (LET). Da una necessità pratica, un programma che interpreta le nuove esigenze con un linguaggio semplice che arriva a tutti, una sorta di "arte della pubblica illuminazione" con l’installazione di illuminazioni e opere d’arte lungo i sottopassi ferroviari per creare nuove "esperienze sensorial-pedonali", e comunicare con questo un nuovo livello di sicurezza della città.

L’iniziativa della CRP viene poi coordinata con il «Lighting Masterplan», elaborato su iniziativa della Pool of London (Partnership): nasce così la Bankside Lighting Strategy (progetto della Equation Lighting Design Ltd) che analizza accuratamente attraverso numerose mappe tematiche, le fonti luminose esistenti, gli usi prevalenti dell’area e l’intensità d’uso nelle varie ore del giorno e della notte (chi-va-dove-quando, considerando che in inverno dalle 16.00 in poi è buio), le diverse categorie dei percorsi, i luoghi in cui si verificano più crimini, i monumenti più importanti, i luoghi che necessitano di essere maggiormente e\o diversamente illuminati.
Il buio deep-dark dei tunnel viene convertito in luce acid-light che incuriosisce, accoglie, orienta e direziona. LA LUCE è l’elemento centrale degli interventi, usata in un codice programmato di colori, forma, ritmo (per geometria e intensità) e funzioni (ambiente/atmosfera, punti strategici, percorsi e ingressi).

Ma come si è accesa quella luce nel tunnel? Ci sarà pure un interruttore da qualche parte. Abituati come siamo ad accettare progetti (e relative realizzazioni) auto-referenziati, sganciati da qualsivoglia forma di programmata pianificazione e gestione urbanistica delle nostre città, completamente appagati dal fatto stesso che la rara opera (pubblica o privata che sia) giunga almeno a realizzazione, riteniamo quasi disdicevole porre alla riflessione l’interrogativo del COME. Modalità quali “in deroga” o “in variante” o addirittura “in emergenza” sono più che sufficienti a spiegarci l’accaduto.
Ebbene, la vicenda dei tunnel, la banale vicenda di un neon che si accende in una sporca galleria di Londra, basta a ricordarci che ALTROVE NON È COSI’.

No, i signori della Cross River & Partners e lorsignori della Pool of London (di lì in poi developers) non si sono svegliati un giorno di buon mattino per decidere di investire in città un po’ di denaro improvvisandosi elettricisti, proprio no. Qualcuno prima di loro aveva pensato a creare le condizioni ambientali (leggasi legislative e urbanistiche) per fargli trovare l'interruttore. Il London Borough of Soutwark (LBS), meglio identificabile come l’ufficio tecnico dell’apposita circoscrizione comunale, redige - nel 1974 prima e nel 1981 poi - due piani di rilevanza strategica per le trasformazioni che si sono verificate nell’area nei successivi trent’anni (quando si dice sguardo lungo).
È davvero così difficile immaginare che a queste – strategiche - regole potessero appartenere anche insignificanti lampadine a basso consumo da sistemare nei tunnel?
Sì è difficile, una battuta di quelle che non fanno ridere.

E invece il North Southwark District Plan, già nel 1981 (quando i tunnel erano bui e grigio-diesel per intenderci) censisce le barriere urbane dei viadotti e i relativi nodi deboli delle relazioni viarie in tunnel, e li segnala come oggetto di studi e piani particolareggiati da redigere per il futuro. Erano gli anni in cui si decideva il futuro della città, si recuperavano i Docklands abbandonati. Nello sfacelo totale della dismissione, nel carosello delle valutazioni comparate di progetti economicamente succulenti che attraevano capitali e investitori come api al miele, nel (lontano) 1981 ci si preoccupa di dare un ruolo urbano (anche) a viadotti e tunnel.
È con questi stessi masterplan che si decide per la prima volta che in quei tunnel bisognerà – assolutamente – accendere una luce.

Nel 2001 La Tate Modern commissiona a Richard Rogers il Bankside Urban Study. Quali gli obiettivi/intervento suggeriti tra gli altri, dallo studio di fattibilità di Rogers? Manco a dirlo: I TUNNEL! Ritorna l’equazione “viadotto ferroviario = barriera da superare, spazio da rivitalizzare”. Torna – meglio definito - l’obiettivo “attraversamenti più sicuri e piacevoli” con illuminazioni speciali e opere di arte pubblica. L'idea confluirà – magicamente - proprio nell’iniziativa LET della Cross River & Partners (quelli che si svegliarono un giorno di buon mattino, ma non per fare gli elettricisti).

L'INTERRUTTORE? Un telecomando ad orologeria a cui il timer è stato programmato circa trenta anni fa. Un interruttore che si chiama pianificazione urbanistica - organica e continua nel tempo- praticata da persone che pianificano con la gente e per la gente, il modo migliore per accendere la luce al momento giusto, quando tutto (o quasi) intorno è pronto per… attraversare il tunnel.

Esercizio per un giochino in moviola: cosa si è fatto nelle città italiane trent'anni prima per trent'anni dopo? E dei nostri tunnel-sottoponti e viadotti cosa ne facciamo? Didascalico.


Ricerca condotta con Cristina Falvella per il suo dottorato in Pianificazione Urbanistica
Studio selezionato in blind peer-review e pubblicato in EURAU 2010
domusweb

Photo and youtube video -actually a very rudimental one- made by myself & my bike. Please, enjoy the music.










sabato 18 febbraio 2012

London-Paris 300 km/h. Why fly again? Posologia dell’Alta Velocità


Faccio un salto al mercato di  Mouffetard, hanno i formaggi più buoni della città. Ho il treno da St. Pancras alle 8.00. Aspettami, torno per cena (Londra: accordi quotidiani di un giovedi’ mattina).

Proust raccontava che <Il piacere specifico del viaggio sta nel rendere la differenza fra la partenza e l’arrivo la più profonda possibile> il viaggio deve far sentire la differenza fra due luoghi in <tutta la sua totalità>.
Se immaginare di unire due <individualità distinte della terra>, passare con la mente dal nome di una città ad un altro nome, dovrà sembrarci un <balzo miracoloso>, allora il viaggio–per dare il piacere del viaggio- deve essere capace di mantenere tutta la sorpresa che quel miracoloso balzo mentale ci ha promesso.
[Cosi’ Marcel Proust, annuncia il viaggio per Balbec con la nonna, in “All’ombra delle fanciulle in fiore”, novembre 1913].

Da un po' quel "balzo miracoloso" non avviene più solo nella velocità della nostra mente, da un po' di  tempo è possibile sperimentarlo addosso e vedere che effetto ci fa. Non è necessario allacciare le cinture di sicurezza. Ma -per esempio- sali sul treno a St. Pancras International di Londra, scendi alla Gare du Nord di Parigi dopo 2 ore e un quarto, e il balzo è compiuto.

La differenza fra la partenza e l’arrivo è profondissima, enorme lo stupore (Marcel Proust ne sarebbe contento) perché poco è intercorso fra ciò che hai appena vissuto nella città di partenza e ciò che farai in quella di arrivo. La mente si aspetta qualcosa di analogo a quanto ha visto fino a 2 ore prima, perché apparentemente nulla di insolito è intervenuto a turbarne la percezione (che so, un decollo e un atterraggio ad es.). Accade infatti che in un repentino swich off/on la mente è costretta a registrare una serie di nuovi segnali da decodificare, come nel gioco delle differenze e deve pure sbrigarsi. Se questa non è una (miracolosa) sorpresa!

Il confronto fra dov’eri e dove ti trovi una volta giù dal treno, è subito agile, eccitante: quella stazione / questa stazione; a tratti involontario <ma come, lì c’era il parquet, e qui è sporco come non pulissero da mesi> ; a tratti impetuoso, la Bellezza invadente di Parigi / gli edifici in mattoni di Londra -in infinite varianti, ma sempre di mattoni-.
Due mappe di due città diverse in borsa, due tipi di moneta, due lingue che ti girano in testa, due metro card, qui il bus 38 e lì il 63. Tutto da usare quasi contemporaneamente.
Le due città finiscono per saldarsi, un pezzo dell’una diventa un quartiere dell’altra, ognuno con la sua specificità. Differenze, analogie, differenze, differenze.
Quel balzo prodigioso che Proust descriveva avvenire nella nostra mente, si realizza ad ogni passo, e ogni passo diventa più leggero ad ogni passo.

Per salire su un volo di linea devi organizzarti per tempo: devi prima uscire dalla città per raggiungere l’aeroporto. E poi bagaglio, attesa, check-in, ingresso, attesa, imbarco. All’arrivo, la processione d’uscita, il ritiro bagagli, cerca il trasporto migliore per entrare in città. Il volo è straniante, è bello per questo, insolito, come non è un viaggio in treno, ma la differenza fra la partenza e l’arrivo qui si perde, si sfilaccia. Molte sono le interferenze che ibernano la percezione perché il (non)luogo-aeroporto funge da camera di decompressione rispetto all’ambiente che lasci o che trovi, ed è uguale, alla partenza come all’arrivo. Per salire su un treno –invece- devi semplicemente andare alla stazione e all’arrivo uscirai dalla stazione. Dal centro al centro. Fatto! <Un balzo che viene schematizzato dall’operazione misteriosa che si effettua in quei luoghi speciali, le stazioni, i quali non fanno parte –per dir così- della città ma contengono l’essenza della sua personalità allo stesso modo che ne portano il nome su un cartello segnaletico> (Marcel Proust, ibidem).

Sembra il testo dei bandi di progettazione internazionale pubblicati dalle Ferrovie delle Stato, quelli che hanno decretato l’investitura ufficiale dei progettisti: AREP per Torino Porta Susa, Calatrava per Reggio Emilia, Isozaki per Bologna e la nuova Bologna Centrale, Foster & Arup per Firenze Belfiore, ABDR per Roma Tiburtina, Zaha Hadid per Napoli Afragola e Samyn & Partners per l’interscambio Vesuvio Est. Sembra la descrizione di Madrid Porta Atocha che dovrebbe collegarsi in un unico link di alta velocita’ con Londra, passando per Parigi.
Quanto quelle stazioni conterranno realmente i geni della città che esprimono e quanto invece si esprimeranno esclusivamente per se stesse (o per l'archistar di turno) con l’alibi di rappresentare  “segno architettonico di forte identità per il territorio”, sarà dato saperlo ad opere concluse, quando scenderemo dal treno.  Lì sapremo se si tratta di meteoriti scagliati al suolo o veri e propri luoghi urbani, che lo interpretano quel territorio anziché violarlo.

LA POSOLOGIA. Non c’è alta velocità se parliamo  delle nuove linee ferroviarie che attraversano l’Europa a più o meno 300 orari e ammiccano con slogan del tipo “Madrid–Londra in 8 ore senza metter piede in aeroporto”. O anche Madrid-Barcellona in 5 ore inaugurata il 20 febbraio del 2008, immediatamente sold out per fibrillazione collettiva. Oppure l'evento “Torino–Salerno in 5" ore o peggio “Londra–Parigi-Madrid- Malaga che promette 21 ore totali”.
Cos’è, ci andiamo in diligenza? Better fly again and again!
Le tariffe aeree rimangono concorrenziali e pensare alla tratta Londra–Malaga come ad una Transiberiana dell’ovest, risulta evidentemente una forzatura, nel migliore dei casi un lusso per pochi in quanto a tempo e denaro.
La posologia dell’alta velocità deve innanzitutto consentire che si conservi il significato di “velocità alta”. Deve consentire che avvenga il "balzo" di cui parla Proust: rapido, repentino, agile e sorridente. Un viaggio in treno dalle tre ore in poi, distrae (e stanca) ineluttabilmente, e la distrazione separa, rallenta la percezione. Una volta a destinazione tutto faremo tranne che ascoltare il miracoloso gioco delle differenze tra due distinte personalità di due città diverse.

La linea High Speed 1 e’ stata inaugurata il 6 novembre del 2007 alla stazione di St. Pancras International. Un treno ogni mezz’ora salda Londra a Parigi.

Al Mouffetard ho preso del Banon in foglia di noce e un Mont d'Or de Boete . Il treno dalla Gare du Nord e’ partito alle 6.00. Prepara il vino.






venerdì 17 febbraio 2012

London Street Gangs / Olympics 2012. Incrociamo i dati


Un sito dedicato allo studio delle bande microcriminali a Londra -le London Street Gangs- ne osserva organizzazione, usi e costumi, in un monitoraggio periodico dal 2006. Con la collaborazione dei vari Councils è nata una sorta di catalogazione, quasi bibliotecaria, per nomi, temi, luoghi e attività prevalenti (perché com’è noto una banda non disdegna certo di specializzarsi in più campi). Gli aggiornamenti più recenti riguardano la mappatura geografica delle gang, una sorta di georeferenziazione dati per visualizzarne meglio la distribuzione sul territorio della Greater London.

La sintesi dello studio è singolare e particolarmente illuminante sulla semplicità auto-organizzativa del fenomeno (mai meglio definibile “dal basso”!). 
I nomi delle gang sono ispirati ad argomenti e temi come il denaro, un colore, il gruppo etnico di appartenenza o l’attività prevalente della squadra: violenza, rapina, spaccio, omicidio (insieme o approfonditi singolarmente ). Dal tema prescelto nascono sigle e acronimi di varia bizzarria: All Bout Money (ABM); Get Money Gang (GMG); Money Hungry; Family About Cash (FAC); Money Motivated Fam; Money Over Bitches; Paper Before Pussy .

Inutile (?) aggiungere che almeno la metà di questi gruppi utilizza social media e internet (youtube, facebook, etc.).
Implicazioni giudiziarie a parte mi ha incuriosito la mappatura di quei dati e di più, quel che viene fuori dall’incrocio -per sovrapposizione virtuale di layers- con una mappa dei cambiamenti in atto in alcune aree a Londra.

Dalla mappatura delle gang emerge che il maggior numero di bande indipendenti si trovano ad Hackney, Tower Hamlets e Newham. Quelle stesse aree, nell’esatto punto in cui  i perimetri dei Councils confinano reciprocamente, sono oggi la sede del Parco Olimpico di Londra2012.
Non è una coincidenza. La scelta delle aree deputate alla localizzazione delle Olimpiadi 2012 ha risposto ad una strategia di profonda riqualificazione urbana di distretti disagiati, periferie disgregate e ambienti socialmente emarginati.

Grazie a quel pensiero strategico, orientato alla sostenibilità ambientale e sociale, oltre che economica, quartieri da sempre vissuti nella segregazione fisica e geografica oltre che sociale, dovranno confrontarsi con una realtà che forse non sarà più così omertosa  e protettiva nei confronti delle gang microcriminali.

La trasformazione intensiva indotta dai piani urbanistici predisposti per i Giochi Olimpici avrà come effetto la costruzione di una città nuova in cui anche la comunità sarà sollecitata al cambiamento. Ci saranno palestre (e che palestre) piscine, un parco enorme, canali navigabili e ponti, veri link per unire e connettere luoghi mai stati in comunicazione se non per scontri tra bande rivali.

Ci saranno centri per la musica e la cultura, dove se proprio ci si vorrà organizzare per gruppi e per nomi, probabilmente non sarà per mettere a punto la prossima rapina.










giovedì 16 febbraio 2012

Second Life: new Utopia? Viaggio tra il privilegio dell'immaginazione e l'obbligo del dubbio



È la settimana della London Social Week. A Londra come in altre undici città del mondo il tema dell'anno è l'impatto globale dei social media come luogo in cui è possibile condurre (e partecipare) i cambiamenti culturali, politici, economici e sociali del pianeta.
Toh guarda, sembra configurarsi -infine- l'idea che cambiamento e collaborazione abbiano l'uno bisogno dell'altro. Ma forse la notizia non è esattamente questa, quanto il fatto che la "novità" stia permeando i luoghi digital-virtuali dove di solito si va a spasso da soli, ci si guarda allo specchio, si parla di sé, di cosa si mangia a colazione, o di dove ci si trovi in quell'esatto momento a fare cosa. Altro che collaborazione.
Philip Rosedale da un po' di anni ha una idea sua propria di come ci si possa incontrare (collaborare?) nell'altrove della rete. Ne aveva parlato un po' di tempo fa qui a Londra, appunto.




30 Novembre, nevica. Nevica da stamattina, fiocchi come ovatta. La lecture è alle 7pm. L’ingresso allo Starr Auditorium è sul lato destro della Tate, dalla parte della rampa per la Turbine Hall. C’è un gran silenzio e poca luce –gialla- una di quelle “notti di natale” che solitamente si avvicendano numerose in dicembre, a Londra. Siamo in due ad entrare (una sono io chiaro!) l’altro e Philip Rosedale. Ci guardiamo, non distratti, lui con l’aria sospesa di chi è certo di essere riconosciuto, io con un sorriso di cortesia (di chi si incrocia di striscio al supermercato): non sapevo che faccia avesse. Restiamo in silenzio.  Lui ritenta uno sguardo, occhi grandi, blu, sorriso aperto da ragazzone americano, lo riguardo e gli sorrido nuovamente –come al supermercato- in silenzio.
Philip Rosedale è a Londra per incontrarsi -nel teatro rosso della Tate- con Winy Mass di MVRDV e Shumon Basar (con i rispettivi fans, insieme ai rispettivi curiosi e molti studiosi) per discutere di nuove “avanguardie”, di nuove utopie per il mondo (reale) e i suoi abitanti. L’idea mirabile è venuta all’Architecture Foundation in occasione della John Eduard Lecture, un appuntamento annuale dedicato al dibattito tra figure leader del mondo dell’architettura e figure altrettanto influenti provenienti da altre discipline (artisti, filmmakers, scrittori, filosofi).
Philip proviene da discipline tecnico-scientifiche. Laurea a San Diego in Fisica, il suo nome è legato alla sua prima creatura, Second Life (piattaforma per incontri, servizi e collaborazioni nel  web), cui son seguiti Linden Lab e la recentissima Love Machine Inc (l’amore non c’entra niente: significa macchina per far soldi). Il Time lo ha inserito fra i 15 uomini che guidano il cambiamento nel mondo. Second Life è un nuovo continente –spiega Philip- non un gioco, con piu’ di 10 milioni di iscritti ed una economia generata pari ad una manovra finanziaria.
Winy, architetto/urbanista, fondatore di MVRDV, associa il suo nome alla Why Factory, ricerca metodica e radicale, idee provocatorie, e soluzioni pragmatiche per il futuro delle città, facilmente comprensibili per tutti. Tema ricorrente e “ossessione” ispiratrice della ricerca è la “densità”, nel senso dell’uso che facciamo della superficie della terra o della mole di informazioni che passano nell’etere grazie alle nostre telecomunicazioni invisibili (mentali e via GPS). Winy inventa Pig City, la fattoria grattacielo per gli allevamenti suini; inventa le periferie “lego” colorate di Ypenburg Hagen Island; lo scatolone (unité d’habitation) Mirador di Madrid; le case sospese di Four Water Villas che restituiscono lo spazio a terra, alla libera circolazione dei pedoni.
Entrambi, Rosedale e Mass, due figure all’avanguardia nelle rispettive discipline, investigano su come il mondo reale può imparare dalla “realtà” virtuale, e viceversa. Entrambi esplorano la linea di confine tra realtà e potere dell’immaginazone, le modalità in cui passano le informazioni da un “mezzo” all’altro, informandosi ed influenzandosi a vicenda secondo le (antiche?) teorie di Marshall McLuhan, citato come mentore-ispiratore dallo stesso Philip.
Reale e immaginario come mondi paralleli dove gli esseri umani esistono in parallelo per costruire un altro spazio, in cui agire (auspicabilmente) in modo migliore.
Rosedale vs Mass un dialogo che attraversa –liberamente- architettura, urbanistica,  sociologia, tecnologia, progresso, sistemi, reti sociali e visioni del futuro . Dal microchip al masterplan, le nuove utopie di cui è certo, abbiamo bisogno.
Ebbene urgono alcuni interrogativi: tutti in buona fede sulle migliori intenzioni di Second Life come sulle verdi praterie verticali di Pig City.
Cosa ci spinga ad inventarci un mondo immaginario, più o meno parallelo a quello reale è tema antico, viaggia insieme all’impossibilità di spiegare perché di notte sognamo.
Tuttavia, sogni –bellissimi e personali- a parte, nel momento in cui vogliamo assurgerli a “ricerca” diventa necessario strutturare il metodo di analisi, svilupparne l’ipotesi, e chiederci  cos’è che ci rifiutiamo di guardare. Da cosa fuggiamo nell’illusione di “progettare” una seconda vita virtuale, dal momento (e a maggior ragione) che pensiamo pure di proporla al mondo intero.
Ci chiediamo forse, come siamo vissuti fino ad oggi, se oggi decidiamo di fuggire da dove siamo? E com’è che ci trasponiamo nella finzione sapendo pure che non esiste, facendo anzi della consapevolezza un illusorio baluardo di forza e incorruttibilità “contro” il virtuale?
Significa forse rifiuto di vedere dolore, cambiamento, metamorfosi per crearci un mondo dove il male non esiste? .. Un antidolorifico planetario? Un Toradol esistenziale?
Cosa si intende in Second Life per “esistere”? E cosa per “inesistente”? Cosa si intende per “toccare”?
Possibile che ci si basti al punto da decidere –megalomani- di costruirci un “bel mondo” a nostra immagine e somiglianza sicuri nei super poteri della nostra superfantasia?
E  i sentimenti? Con quale programma si programmano? Dove sono gli altri sensi oltre la vista dello schermo? Chi frequenta è certo di esperire “energia ulteriore” in ambienti fantastici ,“rooms” e riproduzioni di paesaggi e di città (copie o esternazioni di nostre fantasie che magari non interessano proprio a nessuno).
C’è un momento in cui ci si accorge che la fisicità di quell’esperire è tutta gomiti a scrivania e mani sulla tastiera.. e basta?
Cosa muove la costruzione del mondo parallelo? L’esigenza di coprire le distanze? E non c’era già il telefono? Forse l’esigenza di approcci immediati e informali scevri di sovrastrutture? Non è che avremo perso in spontaneità?  Non sarà che in tanta –finta- immediatezza si nasconde la paura di apparire con la propria faccia? Con il nostro (povero) corpo?

È per questo che Second Life costruisce un mondo in nome del bello apparente, del piacevole, del presentabile, del confortevole, dell’accettabile?
Cosa si intende in SL per “anima”? Cosa per “infinito”? Cos’è l’enorme, l’indicibile, l’impossibile, il non detto? Cos’è uno sguardo in SL?
Esiste il dolore in SL? Esiste un ospedale? Ci va la gente.. e a visitare chi? Esistono le malattie? Le abbiamo forse ripulite via per un “mondo migliore”?
Non c’è forse il rischio di perdere del tutto la cultura del guardare dentro? Pensare solo alla ricerca scientifica e tecnologica quando invece è della vita della gente che si parla, ed è a noi che va quella ricerca; ricerca mai interiore –almeno apparentemente- tutta sovrapposta alla nostra vita in nome dei “servizi” alla nostra vita?
Non sarà che il mito del “viaggiare stando fermi” ha immobilizzato la mente? Ci scervelliamo a far  girovagare il nostro avatar e non sappiamo come si chiama il salumiere sotto casa né quanto costa un etto di mortadella? E che sapore ha la mortadella in Second Life?
La mente è un prodigio indispensabile –tuttora sconosciuto-, ci permette di sentire, esplorare vivere e amare (scrivere), insieme al corpo, però.
Tocchiamole le cose. La complessità, la difficoltà dell’imprescindibile (reale) e i cambiamenti improvvisi (quelli che non ti erano MAI passati per la mente, che ti prendono di sorpresa alle 4 di un pigro martedì pomeriggio), ci spaventano certo, ma forse è lì la più virtuale delle esperienze.
<<Goditi il tuo corpo. Usalo in tutti i modi che puoi. Senza paura e senza temere quel che pensa la gente. È il più grande strumento che potrai mai avere>>. È banale lo so, citare Mary Schmich, dal suo libro “Usa la crema solare” ma è adorabile per i suoi “Consigli sprecati”.
Sold out per l’evento alla Tate
Ma nevicava, e nessuno poteva prevederlo un anno fa, quando cioè si e’ cominciato ad organizzare tutto. Causa neve, non tutti son riusciti a raggiungere la Tate.
Ma quanti impedimenti terreni!
In Second Life ci saremmo incontrati tutti nel posto più bello di SW Second World, progettato da tutti noi insieme, secondo le nostre più fantastiche visioni. Un posto caldo sicuramente, senza tanti cappotti, piumini, guanti, sciarpe e cappelli, magari scalzi, e con una ghirlanda di fiori al collo.
Eppure in quel luogo di Second Life, dove nessuno avrebbe ricreato la neve di TRL This Real Life (ndr), nessun avatar avrebbe potuto programmare né sentire quel silenzio, la tensione, e i passi di due persone che entrano nel corridoio di vetro della Tate, in una delle tante notti di natale a Londra.
Uno dei due ha grandi occhi blu da ragazzone americano, difficili da ridipingere in Second Life.
MVRDV The why factory









domenica 12 febbraio 2012

Maltby Street: la gang dei Bermondsey Seven e il ritorno al valore semantico del cibo



Fotoracconto del sabato mattina (ovvero come attraversare le foto per trovare il racconto)
 
A Londra si sa, fare la spesa, se vuoi farla “consapevole” evitando il supermercato, è come andare a  caccia: stessa ritualità, ritmi e concentrazione, e non significa per questo fare i radical-chic, o essere posh, come si dice da queste parti. È come andare a caccia per difesa, se ti distrai sei fatto. È un’attività riflessiva che richiede studio e una certa pianificazione: deciso l’articolo (carne, uova, pane, pesce o verdura che sia) procedi alla ricerca (bibliografica e sul campo) dei rivenditori di fiducia per poi da lì risalire ai produttori. Cacciatore esperto è colui il quale riesce a ricostruire una attendibile filiera produttiva. Ça va sans dire, più la filiera è corta e maggiore è il prestigio del Maestro di Caccia (l’antico Joint Master della caccia alla volpe di tradizione britannica).  Metafora venatoria a parte, al supermercato si va (o si ordina online) per l’innocuo e il non commestibile. Ma quando si tratta di cibo o sei “foodie” o lo diventi per necessità, poi le soddisfazioni sono parecchie, fai continue scoperte di posti, storie, persone e quel cibo finisce per diventare “nutrimento antropologico” per il corpo e per la mente. Fare la spesa diventa un’esperienza culturale entusiasmante, come succede da un po’ a Maltby Street. 



   


  



  



  Maltby Street è innanzitutto una strada, tranquilla, abbastanza defilata, anche se a due passi dal Tower Bridge/More London/London Bridge e quindi a un tiro di schioppo dal Borough Market, il tempio indiscusso dei mercati di alta qualità a Londra, almeno fino ad ora.  Strada defilata ma al centro, una congiuntura urbana tutt’affatto secondaria. Maltby Street corre a ridosso del viadotto ferroviario e si caratterizza proprio per la sequenza delle alte arcate-galleria in mattoni rossi (e neri di fuliggine) che sostengono quel viadotto.  Inizia come strada, poi diventa un lungo cortile semiprivato fra due cancelli, che si chiama Rope Walk. Qui cammini tra radiatori accatastati, materiali da costruzione dismessi, biciclette di modernariato tedesche e vecchie vasche da bagno, involontaria scenografia felliniana di una delle sedi londinesi di Lassco, noto antiquario. Ebbene tra i rottami e il nero degli archi non ancora ripuliti, al sabato mattina si sistemano bancarelle e postazioni temporanee di una nuova, articolata, geografia di “affiliati” al commercio etico e indipendente, quelli di Maltby Street appunto.
 


 


 
Il primo all’angolo è Monmouth Coffee Company Monmouth Coffee Company  (pare che abbia il caffè più buono al mondo) vende direttamente dal suo magazzino di torrefazione e invade il sottopasso di Tanner Street, di sbuffi bianchi al profumo di caffè tostato. Alla porta accanto c’è  40 Maltby Street con i vini biodinamici francesi e italiani di Gergovie Wines (di giovedì e venerdì sera si può anche cenare). Superato il cancello nero di Lassco si “inciampa” nel Biltong di Nick e Sarah Greeff che vendono carne essiccata dall’Isola di White (sabato scorso dal freddo Nick accompagnava il suo biltong con sorsi di brodo caldo dal thermos). La bancarella del tonno norvegese affumicato di Hansen Lydersen è accanto a Christ Church Fish, il pescivendolo del Dorset (che parla italiano): granchi freschi e pesca ecologica da Mudeford, se vuoi le vongole, gli mandi una email il giorno prima e lui al sabato te le porta. Insieme si riparano all'ingresso del deposito/showroom di Lassco. 



 
 


  


  


 
 



 


  Oh, a sinistra c’è Tozino, di Chuse Valero Orega, jamon pata negra di grande selezione affettato su richiesta da mani esperte direttamente da Teruel. Hola, Chuse, que tall!


  


  


  Superati gli archi-deposito bui di Lassco, che pure inquietano per l’assurdità di quella convivenza, in un unico store-gallery (che loro chiamano affettuosamente “my arch”) c’è The Butchery di Nathan MillsThe Ham&Cheese , Kernel, la birreria artigianale di Southwark, e la mozzarella di bufala della Piana del Sele. Prima del cancello c’è il salumaio dei Paesi Baschi. Più in là ancora c’è Mons dei formaggi francesi e Neils Yard Dairy dei formaggi  del Regno
 


  


   


   


  


 

 
Bene, a questo punto puoi tornare indietro e indugiare, o continuare lungo la linea degli archi fino ai Voyager Arches di Frean Street; in premio per i dieci minuti a piedi, la raclette di formaggio caldo, colato in blob sul pane, di Kappacasein (accanto c'è South East Fruits). In alternativa puoi svoltare a U su Druid Street dove c’è Topolski delle salsicce polacche e i formaggi svizzeri di Kaseswiss; Boerenkaas che vende Gouda; la carne buona di Jacob's Ladder Farms dalle fattorie biodinamiche in Kent, e Sussex; il fruttivendolo Thayshow Limited, che porta i “friarielli” direttamente dalla Campania; i dolci di Bea’s of Bloomsbury Bea's of Bloomsbury; il gulash di Reiner dall’Austria; gli olii aromatici di Catalan Cooking Catalan Cooking e, summa delle bakeries di Londra, il forno del pane (rigorosamente a pasta madre) di St. John. Le sue zeppole calde alla crema valgono uno svenimento istantaneo sul posto, con bava alla crema chantilly. Compiuto il giro hai voglia di ripeterlo e rifarlo ancora, sostare da tutti, parlare con tutti (dargli un bacio in fronte), per tornare al punto di partenza e chiederti se è tutto vero o son le prove del sabato di un circo di premiati saltimbanchi gastronomici.



   


   


  


  


  


  


 

 




Solo due anni fa quelli di Maltby Street erano in sette, nome alla nascita: Bermondsey Seven. Erano in sette, tacciati per dissidenti, quando furono sfrattati dal Borough Market macchiati della “colpa” di aver aperto luoghi di vendita anche altrove, nei magazzini di stoccaggio di Maltby Street appunto. Sfrattati senza preavviso, con una comunicazione perentoria al telefono. Troppo vicini al Borough Market, troppo alto il rischio che vengano soffiati via clienti.
La faccenda è seria, delicata. Altro che circo e saltimbanchi.
Nulla a che vedere col cibo, ma l’antefatto, e forse origine di tutto, è importante. Si tratta (ancora una volta?) di un progetto di riqualificazione urbana –intensiva-, nella fattispecie del potenziamento della rete ferroviaria in uno dei nodi infrastrutturali più importanti di Londra, se non dell’intero Regno Unito: la London Bridge Station. Un progetto necessario perché quando si verificano i “tappi” nel “collo di bottiglia” di quella stazione, i treni accumulano ritardi fino in Kent. Qui, binari provenienti dal sud (del mondo) diretti in ogni dove (cioè al nord), si intrecciano su viadotti possenti, poggiati su grandi arcate in mattoni rossi, o grigi, o ocra. Qui è cresciuta e ormai terminata (pronta per giugno) la Shard, torre per uffici e appartamenti più alta d’Europa (progettata da Renzo Piano) di cui non tutti qui in giro, hanno mai condiviso a pieno la necessità. Un luogo forte dunque, un urbano concentrato, non mi piace dire “cuore pulsante” ma questo pulsa assai.
Sotto quei ponti, sotto il rullare dei treni, si svolge da circa trecento anni (se ne ha notizia dal 1276, c'è chi lo fa risalire al tempo dei romani) il mercato più grande e noto di Londra in quanto a cibo di alta qualità (certificata) di provenienza locale, dai contadini del Regno, e globale, dalle cucine del mondo. Un luogo splendido (chissà un giorno mi deciderò a scrivere quanto mi piace). Qualità e fama indiscussa a parte, il Borough Market negli ultimi anni sta diventando vittima del suo successo. Orde di turisti compatti in corpo unico, si svolgono in lenta processione "ondiva" in nome di San Cibo. Di qua la macchina fotografica, di là il braccio telescopico attrezzato con mano prensile su invitanti bocconcini, concentrato di ogni prelibatezza bio: formaggi, prosciutti, spiedini, pane, pesce arrosto, dolci, vini, salsicce.. Insomma, sotto quegli archi, al sabato mattina i turisti cheap/chic si travestono da degustatori esperti per assicurarsi un pasto free. Non inneggiano a canti food-religion solo perché hanno la bocca piena. Catturate in quelle foto oltre a mele, pere, zucche e funghi in bella mostra, i food-tourist portano a casa anche le facce dei commercianti, trattati più o meno alla stregua di scimmie allo zoo, fenomeni da baraccone-bancarella.
Quelle facce da un po’ esprimono una piega di disappunto profondo. Tutti passano nessuno compra. Chi abita in zona e ha voglia di far la spesa è dissuaso dall’affollamento: stai lì in fila ad aspettare il tuo turno e poi ti accorgi che quelli davanti a te stavano solo fotografando il banco del pesce. Gli affitti aumentano, le aree di stoccaggio scarseggiano, come pure i parcheggi e le attrezzature di servizio alla vendita e alla logistica. Le prospettive di “riqualificazione” generale sembrano spingere all’estinzione le bancarelle un po’ sciatte ma vere dei contadini –veri-, per sostituirle con stand tutti uguali finto country, con venditori, finto contadino. Il fantasma della riconversione in cartolina turistica stile Covent Garden, Camden, Spitalfields o Leadenhall incombe minaccioso.
Molti dei commercianti del Borough Market posseggono magazzini di stoccaggio sotto gli archi di Bermondsey, dove la temperatura è abbastanza bassa per la conservazione dei cibi e c’è davvero tanto spazio perché sono come delle grandi gallerie (e ne conservano un fascino irresistibile). Sono gli archi di Maltby Street e Rope Walk. Anche qui rullano i treni in corsa e rimbomba tutto mentre compri il pane da St. John o bevi una birra da Kernel. Ma qui c’è qualcosa che al Borough Market forse non c’è più. C’è come un riappropriarsi del senso delle cose, si dà un volto, un nome, una storia a quello che altrove è lo scambio commerciale tout court. C’è il tempo di ragionare sulle cose, di raccontare da dove vengono, perché sono lì, e di lasciar trapelare così pezzi di vita reciproca. Così conosci Chuse di Tozino che ti racconta di com’è cresciuto a pane e prosciutto, non quello più salato pata negra, stagionato al sud dove c’è il mare, ma quello più dolce dell’entroterra, di Teruel. Ti dice che ormai quel sapore è registrato nelle sue papille da bambino. Conosci Nathan The Butcher, macellaio indipendente orientato alla sostenibilità di un mestiere difficile per chi ama gli animali. Nathan che chiude i pacchetti con lo spago, si rifornisce da piccoli allevatori, seleziona soltanto pochi capi, e tiene corsi serali per insegnare i trucchi del butcher; ha un blog, e su twitter parla di etica della semina, di come preparare i campi di pascolo. Su twitter puoi chiedergli in tempo reale cos’ha di buono l’indomani o di prepararti qualcosa che ti piace in particolare. Su twitter ti annuncia che in settimana gli nascerà un figlio, non per outing ma per dirti che forse sabato non sarà a Maltby Street ma troverai i suoi fratelli a sostituirlo. La parte buona della tecnologia sostenibile: partecipare, condividere, interagire (se ti va). Il telefono non serve più.
Tutto un altro mondo a Maltby Street, tutto torna ad essere più vero, nessuna preoccupazione per l’immagine, i turisti sono tutti al Borough Market. L’ansia da super affollamento, le gomitate e la confusione, lì poco consone alla spesa del sabato mattina, qui lasciano spazio ad una passeggiata rilassante, come in un villaggio di campagna. Non c’è compiacimento né retorica, nessuna dissertazione dotta sul dio Cibo, nessuna spettacolarizzazione. Se il cibo ha un ruolo a Maltby Street forse è quello di creare comunità e socializzazione, una sorta di tribù.  Ti intendi al primo sguardo: siamo in zona protetta, non è più necessario andare a caccia.
Eccoli i sette sfrattati di Bermondsey Seven
1 Kappacasein
2 The Borough Cheese Co.
3 The Ham and Cheese Co.
4 Hophurst Farm/Rennet and Press
5 Kaseswiss
6 Mons
7 Topolsky